25/08/2022

Io sono PRO

#IoSonoPRO può voler dire tante cose.

PRO come PROject Manager. Di cosa comporti il ruolo e le relative responsabilità, e di cosa significhi essere certificati come Project Manager ai sensi della Legge Italiana, abbiamo già parlato in precedenti articoli.

Oggi parliamo di PRO come PROfessionista. Non necessariamente “Project Manager professionista”, ma più in generale “praticante professionista del Project Management”.

Dal punto di vista lessicale sembra una differenza da poco, ma da quello semantico è netta. Ad un team di progetto partecipano diverse persone e con ruoli differenti, ma tutte sono coinvolte nelle attività di gestione. Spesso, si compie l’errore di pensare che tutto sia in capo al Project Manager. In realtà, la gestione di progetto si compone di tante attività con risvolti operativi, come la pianificazione dei diversi aspetti, le stime di tempi, costi e risorse necessari, la raccolta delle informazioni sulle prestazioni del lavoro, la tracciatura di tutte le informazioni e la conoscenza rilevante (rischi, assunzioni, problemi, requisiti, questioni, stakeholder, etc.), il monitoraggio e controllo di avanzamento.

Se il framework adottato prevede una figura specifica di Project Manager – cosa non sempre vera, come nel caso dei metodi e delle pratiche agili – questi svolge il ruolo di “integratore a livello sistemico”, coordinando e sincronizzando i diversi contributi, mettendo in comunicazione (”comune azione”) gli stakeholder. Non è compito del Project Manager definire in autonomia una WBS, o un piano di rilasci, o un modello di schedulazione. Sono le persone del team che producono contributi puntuali in funzione delle loro competenze, che poi il responsabile assembla e integra.

Perciò, possiamo dire che qualunque membro del team di progetto, al di là della job description e del ruolo che gli viene riconosciuto formalmente all’interno dell’organizzazione, DEVE essere un praticante del Project Management, nel senso che deve conoscere tecniche e strumenti ed avere la sufficiente esperienza per svolgere le attività di gestione su cui sarà chiamato a contribuire.

La domanda é: come lo si può fare a livello professionale e quanto ci si impiega partendo da zero?

Il significato concreto di “professionista”

Avete presente quelle serie e quei film polizieschi, quelli dove a fronte di una rapina o di un delitto il detective incaricato dell’indagine ad un certo punto dice “questo è il lavoro di un professionista?”

Lo dice quasi con ammirazione, anche se poi dovrà dare la caccia al colpevole, perché il lavoro è stato efficace, pulito, efficiente, non ha lasciato tracce. Ha fatto quello che doveva fare come andava fatto.

Cosa distingue allora un professionista da uno che non lo è? Beh, intanto parliamo di preparazione e competenza. Un professionista è uno che sa le cose di cui si occcupa, che le sa molto bene, le ha studiate, le ha apprese, quindi c’è una dimensione di conoscenza teorica e sistematica dell’essere professionisti. La dimensione del “sapere”.

Non un sapere da quarta di copertina, “per aver letto qualcosa” o perché “me l’ha detto mio cugino”. Un sapere approfondito, che spazi orizzontalmente per creare link tra temi apparentemente diversi, ma anche in grado di scendere verticalmente fino al dettaglio delle questioni.

Ma sapere non basta.

Un progetto è sempre un’iniziativa concreta, dove bisogna fare cose, coordinare attività per raggiungere obiettivi, quindi oltre a sapere bisogna anche saper fare, saper applicare.

Posso aver studiato il diagramma di Gantt e il metodo del percorso critico su un libro, puoi aver studiato a menadito un manuale di Kerzner o di Archibald, possiamo aver discusso di esempi specifici, ma elaborare una pianificazione dei tempi su un progetto vero di cui devi rispondere in ambito professionale è tutta un’altra storia.

Se però ne abbiamo viste tante, se da anni partecipapiamo a team di progetto, magari in un ambito specifico dove ci siamo potuti specializzare, allora possiamo recuperare informazioni e similitudini che ci aiutano ad applicare quello che sappiamo nel contesto in cui ci troviamo.

Insomma, la conoscenza è importante ma lo è anche l’esperienza. Conoscenza ed esperienza sono le due gambe su cui si regge la professionalità. Però non crediamo di dire nulla di nuovo e quello che vale per il Project Management vale per qualsiasi altra cosa.

Poggiare solo su una delle due crea squilibri e prima o poi si cade. La conoscenza da sola è puro esercizio teorico, speculazione, magari interessante ma che non crea particolare valore se non per te, se ne sei appassionato.

Perciò alla domanda “può una persona fresca di laurea, magari conseguita in una università o una business school prestigiosa, pensare di essere da subito un praticante professionista del Project Management? La risposta è un no netto e deciso.

Ha studiato delle cose, con risultati magari brillanti, ma non le ha ancora applicate in un numero sufficiente di casi per consolidare una vera professionalità.

Tuttavia, anche fare il ragionamento opposto porta a dei seri guai. Ritenere che basti solo l’esperienza, la pratica fatta magari solo nel proprio ambito senza una conoscenza sistematica di teorie, schemi e modelli.

Molti lo hanno pensato per decenni e questo pensiero ha portato danni enormi alla nostra economia e alle nostre organizzazioni. Si sente dire ancora spesso nei corridoi delle aziende “si, il Project Management…tutta teoria…ma il mondo reale è un’altra cosa…” oppure “basta chiacchere inutili, dobbiamo produrre e fatturare…” senza chiedersi se un po’ di conoscenza e preparazione teorica non possano aumentare di più e meglio il fatturato.

Riuso di conoscenza ed esperienza vs sperimentazione

Il Project Management è una disciplina empirica. Non è una scienza esatta. Non esiste un modello matematico che lo descriva come per una legge fisica.

Da un lato si usano le cosiddette “lesson learned”, le lezioni apprese. Sia quelle derivanti dalla propria esperienza diretta, che quelle derivanti dall’esperienza di altri reperibile sui libri o parlando con le persone. Riutilizzando le lesson learned si guadagna sicuramente in efficienza, perché non si parte ogni volta da zero.

D’altro canto però, siccome ogni progetto, per quanto simile ai precedenti, sarà sempre un po’ diverso allora si deve anche sperimentare, quindi applicare, provare, tentare, per imparare.

Lo si può fare in 2 modi.

Il primo metodo si chiama “induttivo” (come suggeriva Francis Bacon): sperimenti in modalità “trial and error“, cioè ti butti a fare qualcosa, sbagli, raccogli dati, correli le misure ed elabori modelli. Sembra promettente, del resto si sente dire parlare spesso dell’importanza dell’errore e del fallimento come strumento di apprendimento.

Attenzione però a non fare la fine del tacchino induttivista, protagonista della storiella inventata dal filosofo e matematico Bertrand Russell, che non aveva considerato i rischi di questo approccio.

Un tacchino americano voleva formarsi una visione scientifica del suo mondo. Così, ogni giorno sperimentava e osservava il fatto di venire nutrito al mattino dal suo allevatore. Di giorno feriale e festivo. Col caldo e col freddo, d’estate e d’inverno, col sole e con la pioggia. Ogni santo giorno. Siccome il tacchino era induttivista, concluse elaborando la seguente teoria “Domani mi daranno il cibo alle 9 del mattino come fanno ogni giorno”.

Peccato che l’indomani sarebbe stato il giorno del ringraziamento e il cibo sarebbe stato lui…

Insomma, chi pratica la gestione di progetto con approccio induttivista è quello che si basa solo sull’esperienza, affronta un certo tipo di progetti sempre nello stesso modo, perché su quelli che finora ha sperimentato ha funzionato. Ma se cambiasse settore o scenario? O se cambiasse il contesto del suo ambito o settore di riferimento?

Noi preferiamo un altro metodo, quello deduttivo, proposto da chi? Ovviamente da Betrand Russell, che aveva usato la storia del tacchino per ridicolizzare l’altro approccio e proporre invece il suo. Russell era in buona compagnia, quella di Popper, che suggerisce anche lui il metodo deduttivo, che non consiste nel partire subito a sperimentare e a raccogliere dati per poi desumere a posteriori schemi e comportamenti, ma prevede di partire da ipotesi e modelli da mettere alla prova con i dati raccolti da esperimenti mirati.

Un esempio concreto può aiutare a chiarire.

In un progetto non tutto è pianificabile e conoscibile a priori. Si dovranno fare per forza delle assunzioni, correre dei rischi, affrontare incertezze. Perciò si dovrà ipotizzare un esperimento nella forma:

Se eseguo l’azione X mi aspetto un risultato Y con un un impatto Z

Immaginiamo di voler applicare un piano di vaccinazione (non importa per quale virus o malattia) per immunizzare entro 3 mesi il 50% della popolazione. Per farlo, calcoliamo che dovremmo triplicare il ritmo delle vaccinazioni e per farlo avremmo bisogno di 10.000 operatori sanitari in più. L’ipotesi è assolutamente plausibile, ci basiamo su schemi, modelli e magari ache evidenze precedenti.

Proviamo allora a verificarla con un esperimento controllato. Ingaggiamo 1.000 operatori sanitari (il 10% del totale) in 3 settimane, facciamo andare il sistema per 1 mese e abbiamo un esito. Misuriamo questo esito. Dalle misure ricaviamo dei dati, che interpretiamo imparando nuove cose sul nostro fenomeno. Col 10% del personale sanitario rispetto a quello a regime potremmo aspettarci di vaccinare il 10% del target di popolazione. Quindi il 5% del totale (il target era il 50%).

Potremmo scoprire, con una proiezione del nostro esito parziale, che a questo ritmo riusciremo effettivamente a vaccinare metà della popolazione in 3 mesi, oppure i dati potrebbero mostrarci che qualcosa non sta funzionando come ci aspettavamo, perché, sempre in proiezione, invece del 15% previsto alla fine del primo mese in realtà avremmo vaccinato solo il 7% del nostro target.

Perciò, dobbiamo rivedere la nostra ipotesi sulla base di schemi, modelli e ragionamenti e ricominciare, reindirizzando ipotesi ed esperimento. Magari per scoprire che c’è un problema con il sistema centrale di prenotazioni che fa da collo di bottiglia, per cui anche solo i nostri 1.000 operatori sanitari non riescono a lavorare a pieno regime.

Miglioriamo insieme la nostra professionalità

Nel Project Management, come nella scienza, non possiamo derivare leggi generali solo da singoli casi per quanto numerosi. Non si può pensare che basti dire “ma finora abbiamo fatto così e ha sempre funzionato…”

Dobbiamo sfruttare l’abilità del nostro cervello di produrre predicibilità e ordine. Sperimentare a tentoni non ci porta lontano, dobbiamo sapere “cosa” sperimentare perché l’osservazione non è mai neutra, ma indirizzata dal modello o dall’ipotesi che vogliamo mettere alla prova.

Per cui, anche se si tratta di una disciplina empirica, il praticante professionista di Project Management non sarà mai un empirista puro, la sua mente sovrapporrà comunque i propri schemi e classificazioni alla realtà osservata. Schemi e classificazioni che vanno costantemente arricchiti ed aggiornati. E come possiamo farlo? Studiando per acquisire nuove conoscenze, così abbiamo chiuso il cerchio. Conoscenza ed esperienza si fondono e diventano professionalità.

Dal prossimo 5 settembre la community di Progettualitalia si metterà a tua disposizione per arricchire le tue conoscenze, con contenuti, interazioni e formazione di qualità, e potenziare la tua esperienza traendo spunto da quella degli altri colleghi. Per arrivare a dire: anch’io sono PRO.

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